Memoria, identità, cittadinanza: una scelta educativa tra ricerca e didattica |
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“E la nostra massima risorsa è costituita dalle storie.” (Daniel Taylor, Le storie ci prendono per mano, Piacenza, Frassinelli, 1999, p. 66) Quello che qui si presenta è un intenso lavoro di ricerca, di comunicazione, di rivisitazione appassionata di luoghi e di paziente recupero di documenti ufficiali e di testimonianze autobiografiche, nonché di profonda autoriflessione. Esso non è costituito dalla storia ma dalle storie. Quando parliamo di storie ci riferiamo a quel narrare di sé e del mondo che si compone come una trama fluida e sensata quando le corde della nostra memoria, della memoria di tutti noi, cominciano a vibrare. E’ ciò che si è verificato andando a ritrovare le anziane e gli anziani ex alunne/i ed ex insegnanti della “Leopardi”, testimoni e protagonisti di un passato che appartiene alla scuola come al quartiere e che è in grado di rappresentare a tratti la più ampia realtà collettiva del Paese in una stagione di rovina ma anche di rinascita per la storia nazionale. Il tutto – vicende private e pubbliche – rappresentato attraverso sequenze di “vissuto” e con il linguaggio caldo e avvolgente dell’affettività. Così si fanno ascoltare le voci delle /degli intervistate/i. Ma l’espressione non è meno suggestiva se a parlare sono i documenti dell’archivio scolastico: registri, pagelle, atti amministrativi, pur nei loro abiti burocratici e nella lingua infarcita di formule di rito, lasciano trapelare emozioni e sentimenti nel fotografare uno spaccato di vite, a volte durissime, immagini di stenti quotidiani, di povertà senza sbocco, di pesanti fatiche e di amare umiliazioni. Il racconto come dialogoPerché sia chiaro il senso dell’intero progetto è opportuno ricordarne la finalità didattica, il fatto cioè che i materiali raccolti siano destinati in prima istanza a bambine/i e ragazze/i di oggi. Generazioni che, secondo quanto da alcuni anni si va osservando e dibattendo in ambito socio-pedagogico, mostrano grandi difficoltà sia nella rappresentazione del passato e nella percezione della continuità della storia sia nella costruzione di memoria. Un limite, questo, che si traduce in un notevole ostacolo cognitivo dal momento che l’oggetto o “la faccia oggettivata della memoria” – secondo l’espressione di Paul Ricoeur – è propriamente l’ “eikon”, quell’immagine “che si dà come presenza di una cosa assente”[1]. Al di là dell’aspetto strettamente cognitivo, vi è anche una conseguenza sociale di non poca importanza: la rottura infatti che così si determina penalizza tutti coloro che si trovano a vivere oggi la loro vecchiaia, poiché il valore dell’età avanzata sta proprio nel ricordare, nel dare senso alla propria esistenza attraverso la trama dei ricordi e nel tramandare i significati che il racconto disvela a mano a mano che ci si allontana dal cuore del vissuto. Perché le donne e gli uomini avanti negli anni assolvano a tale funzione narrativa è necessario che godano di un vero ascolto. Condizione non facile a darsi in una società dominata dall’emergenza, dall’abbassamento degli orizzonti di futuro, dalla frammentazione dell’esperienza, dai contatti virtuali e rapidi, tutti fenomeni che, com’è noto, eludono la continuità e tolgono allo “scambio” la possibilità di trasformarsi in “dialogo autentico”. Una realtà che il sociologo Zygmunt Bauman ha ben descritto quando ha parlato di un “mondo liquido di identità fluide, il mondo dove le regole del gioco sono finire in fretta, proseguire e ripartire di nuovo”[2]. Al di là della constatazione - utile solo alla conferma dell’esistente - che tali fenomeni sono connessi ai processi di mutamento della nostra società e che le giovani generazioni sono tra le espressioni più rappresentative dell’alto livello di differenziazione delle società moderne avanzate, occorre domandarsi se non sia il caso di riprendere il filo delle ricuciture. A cominciare da micro-realtà e da micro-esperienze come questa che presentiamo, avvertendo che non si intende proporre una improbabile “moralizzazione” a colpi di “laudatio temporis acti”. Nel nostro caso la proposizione della memoria del passato non è operazione nostalgica o di rimpianto, ma si configura come risorsa comunicativa e relazionale tutt’altro che unidirezionale. Essa mira a sviluppare identità, confronto ed empatia, ingredienti che creano piuttosto una circolarità dialogica in cui non sono solo le vecchie generazioni a trasmettere e a orientare; né solo le nuove a dover apprendere. Il dialogo autentico – come insegna Hans Georg Gadamer – ha la potenza di far nascere la comprensione come evento imprevisto[3]. Ed è la prospettiva della comprensione, più che quella dell’apprendimento, che appartiene specificamente alla memoria e alla sua ricchezza educativa. In questo senso, la memoria che comprende, che lega, che annoda fili e li mantiene uniti, è anche materia prima per la costruzione della polis, di quello spazio comune che si nutre di rispetto, di riconoscimento reciproco e che vive di fiducia discorsiva. L’operazione che qui viene illustrata, quindi, ha a che fare con una peculiare forma di conoscenza, perché c’è - e va riconosciuto – un valore conoscitivo innegabile nell’esperienza, nel vissuto delle persone, perché il racconto di una vita è un sapere. E la memoria che lo trasmette si pone perciò come diritto: accesso a un sapere qualitativamente diverso dalle nozioni istituzionalizzate, ma altrettanto necessario per fare luce nella visione delle cose e di sé. Infine esso ha un pregio speciale, sul piano dell’interazione sociale, perché è in sé non gerarchico: ci dice infatti quanto siamo dipendenti gli uni dagli altri, quanto siamo diversi eppure uniti. Proprio come le nostre storie. |
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